Perverso e angelico. Vita complicata di Mapplethorpe, fotografo "scultore"

Scritto il 27/07/2025
da Francesca Amé

L'artista visto in tutte le sue contraddizioni. E poi l'amicizia con Patti Smith e il successo

Chi avrebbe mai il coraggio di scriverlo, oggi, un libro così, 500 e rotte pagine documentate fin nei minimi dettagli, eppur crude, a tratti persino impietose, come ha saputo fare la giornalista statunitense Patricia Morrisroe nel suo Mapplethorpe. Una vita, appena pubblicato in Italia da Marsilio Editore (pagg. 512, 31 euro)? L'autrice, collaboratrice di lunga data del New York Magazine, lo ha composto giusto trent'anni fa, di certo colpita da quel fotografo così diverso da tutti gli altri che incontrò per la prima volta nel 1983 e che, all'inizio dell'intervista, le promise con fare seduttivo: "La mia vita è persino più interessante delle mie foto". All'epoca Morrisroe era inviata del Sunday Times Magazine e gli incontri con Robert Mapplethorpe, ex enfant terrible del Queens che si divertiva a mescolare fotografia e pornografia, saranno diversi, l'ultimo giusto un mese prima della morte dell'artista, piegato dall'Aids, nel marzo dell'89, a soli 42 anni. A questi si aggiungono confronti e testimonianze con il Mapplethorpe-world: si comincia dalla sua famiglia d'origine (cattolica, piccolo borghese, con padre impiegato e madre bipolare ossessionata dall'igiene, oltre a uno stuolo di fratelli e sorelle) e si arriva alla famiglia d'elezione (dalla "moglie-per-finta-musa-amica" Patti Smith a Sam Wagstaff, curatore&compagno, collezionista&mentore, inclusi svariati amanti occasionali, aristocratiche mecenati inglesi, facoltosi galleristi progressisti). Un lavoro certosino di ricostruzione che lascia poco spazio all'immaginazione (veniamo a sapere anche in quale edicola il Mapplethorpe tardoadolescente sbirciava i primi giornali porno-gay) e che non arretra nemmeno nella narrazione dei particolari più intimi degli ultimi mesi, quando il corpo del fotografo è ormai una mappa di sondini e cateteri, con le nausee che gli impediscono di mangiare ma non di scegliersi una giacca velvet per andare, in sedia a rotelle, accompagnato dall'infermiera, all'ultimo vernissage newyorchese.

Più che la storia di una vita, questa biografia è un bollettino di guerra: ogni capitolo è una battaglia e l'autrice non fa nulla per edulcorare i tratti del nostro eroe in campo. Il primo scontro di Mapplethorpe è con i famigliari, dai quali pare abbia ereditato giusto "gli occhi verde torbido". Inappetente, solitario, sedotto dall'iconografia cattolica (i primi dipinti di Mapplethorpe sono quelle che lui definisce "Madonne cubiste", ma giusto il parroco locale le apprezza), il giovane Robert passa l'adolescenza a vergognarsi e a negare la sua omosessualità. La casa gli sta stretta ma appena esce dal nido e approda nella New York alternativa sbraca: comincia presto con Lsd e sostanze varie ("che considera parte della sua ispirazione e che a suo giudizio favoriscono la creatività") e si ostina a fare l'artista, ovvero a dipingere e a creare collage, ché la fotografia per lui non è vera arte. Sulla sua strada a un certo punto arriva Patti Smith, e tutto prende una forma nuova: magistralmente narrata, la "relazione pericolosa" con la cantautrice poetessa è forse la parte più vibrante della storia, perché davvero due anime così non potevano che incontrarsi e scontrarsi e sostenersi fino alla fine, nonostante tutto, nonostante tutti. Robert è la metà mancante di Patti, e viceversa: insieme vivono in una stanza-buco del Chelsea Hotel, litigano, si supportano professionalmente (di fatto lei lo mantiene), la loro platonica alcova è una "fabbrica d'arte" dove tutti gli altri possono entrare, pur restando attori non protagonisti. Sono gli anni in cui Robert Mapplethorpe ritrae Patti Smith come una sorta di alter ego: nelle foto in bianco e nero lei pare la vera queen, la regista dello scatto. Alcuni di questi ritratti li vediamo, tra molti altri, ben esposti nelle Stanze della Fotografia, sull'Isola di San Giorgio a Venezia, nella mostra Robert Mapplethorpe. Le forme del classico, duecento foto dagli anni Sessanta agli anni Ottanta che dimostrano quanto la fotografia dell'americano sia, prima di tutto, scultura di luce e confronto diretto con l'arte antica (la mostra, a cura di Denis Curti, è visitabile fino al 6 gennaio).

Mentre sta con Patti Smith, Mapplethorpe si muove alla ricerca del suo stile: ora la fotografia è il suo mezzo d'elezione. Più che libertino, sessualmente vorace, scopre un'estetica gay virile (in America si chiama culture leather) che lo affranca dal terrore di essere considerato fragile come una ragazzina. Ne farà il codice preferito di molti scatti in bianco e nero, pervasi dall'ossessione per corpi, come quello della body builder Lisa Lyon, che sono ambigui, parossistici, stravaganti. Seguono periodi caratterizzati dai rapporti con modelli (amanti) neri, che la biografa descrive come impregnati di un neanche troppo velato razzismo. "La fotografia è il modo perfetto per commentare la follia dei nostri tempi", dirà Mapplethorpe e muovendosi scaltramente sul mercato tra "scatti per tutti" e "scatti proibiti", tra ritratti, foto di fiori e fotografie erotiche per non dire pornografiche, sgomitando per conquistarsi gli amanti con i giusti contatti e un congruo portafoglio, Robert Mapplethorpe diventa finalmente Robert Mapplethorpe, la quintessenza della provocazione. Grazie a una pervicace ostinazione che gli imponeva di estirpare il brutto dal bello del reale, la sua fotografia seduce prima qualche gallerista amico e poi i grandi musei. Resta comunque un outsider, seppur di lusso: non mancano, anzi, continuano dopo la morte le accuse (e un processo) per oscenità. I suoi scatti piacciono, ma non come le più rassicuranti piscine dipinte da David Hockney. Doloroso leggere i capitoli finali del volume: neanche durante gli anni della malattia (tre lunghissimi anni in cui ha provato ogni cura possibile) Mapplethorpe riesce a trovar pace. Quasi in punto di morte trova le forze per arrabbiarsi per un articolo di Vanity Fair che lo riguarda, disegna sul letto d'ospedale autoritratti che firma compulsivamente. Fino alla fine è in lotta contro il mondo per affermare sé stesso: che vita.