Il pugile con il cemento nei guantoni: il match scandalo a New York

Scritto il 27/07/2025
da Paolo Lazzari

Nel 1983 accadde qualcosa di mai visto al Madison Square Garden: così la fida tra Billy Collins Jr e Luis Resto si trasformò in tragedia

Sembra la sceneggiatura di un horror. E invece è la cronaca esatta di uno dei più vili tradimenti nella storia dello sport. La sceneggiatura è fitta. Il giovane eroe, l’avversario scaltro, il mentore corrotto, la vittima innocente, il crimine perfetto, e una giustizia che, come sempre, giunge troppo al rilento. Questa non è una storia di pugilato. È un verdetto sull’umanità che arretra quando dovrebbe farsi regola.

Siamo a New York, primavera del 1983. Il Madison Square Garden vibra. In cartellone ci sono nomi pesanti, ma il match tra Billy Collins Jr e Luis Resto non è che un contorno. Eppure, sarà proprio quel contorno a lasciare un segno di sangue indelebile sul volto della boxe.

Billy è un ragazzo del Tennessee. Irlandese nell’anima, i pugni incisi nel destino. Un padre ex combattente, una carriera promettente, un record immacolato. Luis arriva dal Bronx. Porto Rico sulle spalle, un passato burrascoso, una carriera ordinaria. Ma quel giorno, sul ring, i ruoli si ribaltano. E non per merito.

Dieci riprese. Trenta minuti di inferno. Billy incassa colpi inumani. L’occhio destro si chiude, il volto si deforma. Non si tratta più di boxe: è un’aggressione in piena regola, solo che sul momento nessuno ci capisce niente. Il pubblico applaude ignaro. I giudici osservano con le pupille appannate. Ne esce una mattanza. Collins Jr ha la faccia pesta all'ennesima potenza, come se gli fosse appena piovuto contro un diluvio di chicchi di grandine. Alla fine Resto alza il braccio. Vittoria. Ma quando il padre di Billy stringe la mano dell’avversario, si accorge dell’inganno: i guantoni sono anomali. Troppo sottili. Troppo duri. Troppo sbagliati.

Scoppia il caos. Collins Sr urla, denuncia, accusa. I guantoni vengono sequestrati. Le analisi confermano l’orrore: metà dell’imbottitura è stata rimossa. Al suo posto, una benda indurita con polvere di gesso che si è cementificata. Non erano pugni, erano sassi. E il ring, quella sera, non era un’arena sportiva: era il teatro di un crimine premeditato. Il colpevole ha un nome: Panama Lewis. L’allenatore di Resto. Uno di quelli che parlano di “cuore” ma pensano soltanto al denaro. È lui a orchestrare tutto. È lui a trasformare un match in un’aggressione a orologeria. Resto esegue, senza fiatare. Billy incassa, senza capire.

Il verdetto giudiziario arriva: Resto e Lewis condannati per aggressione criminale e cospirazione. Due anni e mezzo dietro le sbarre. Troppo poco. Perché fuori dal carcere un'altra sentenza è già stata emessa. Billy non potrà più combattere. Ha perso la vista da un occhio. Ha finito la carriera. Nove mesi dopo, muore. Auto fuori strada. Alcol nel sangue. Cuore in frantumi. Aveva 22 anni. Non è stato soltanto un incidente. È stato un lento suicidio. L’ultima ripresa, fuori dal ring.

Resto confesserà solo venticinque anni dopo. Sfinito, dimenticato, pentito. In un documentario ammette: sapeva tutto. Era tutto calcolato. Le bende erano trattate, i guantoni alterati. Lo scopo? Vincere. Non importa come. Panama Lewis, invece, è tornato. Non sul ring, ma ai bordi. Non negli angoli, ma nei giri. Ha allenato altri pugili. Ha concesso interviste. È diventato una leggenda nera. Come succede spesso, chi ha rovinato una vita ha trovato il modo di rifarsi la sua. Resto no. Vive da emarginato, piegato dal rimorso, consumato dall’alcol. Ma ormai è troppo tardi.

La Commissione atletica? Assente. I funzionari? Svagati. I medici? Distratti. Così il ring — simbolo dell’onore, della sfida leale, del sudore che si misura a colpi di fatica — diventa luogo del sopruso, dove chi frega vince, chi denuncia perde, e chi resta a terra non si rialza più. Una tragedia american in piena regola. Da quel giorno la boxe non si è più ripresa. Ma forse non ci siamo più ripresi nemmeno noi.