C'è violenza politica e violenza politica, e quella del Novecento è stata molto diversa dall'attuale. Ben più intensa e diffusa, ma pure assai più ambiziosa. Più e meno pericolosa al tempo stesso. Poiché oggi amiamo tanto paragonarci ai nostri antenati del secolo scorso e dar di fascista a questo o quello con la stessa disinvoltura con cui ordiniamo un caffè, forse è il caso che ci chiediamo con un minimo di serietà se siamo davvero così simili a quegli avi e se i fascisti sono veramente alle porte. Nel Ventesimo secolo la violenza politica è stata mezzo di grandiosi e terribili progetti collettivi di trasformazione del mondo. È stata politica nel senso proprio del termine, insomma. I movimenti che l'hanno utilizzata erano figli di un duplice fallimento: dell'ordine liberale che aveva dominato la seconda metà dell'Ottocento e della fede nel progresso che lo aveva nutrito. E hanno risposto alla crisi storica esplosa con la Grande Guerra proponendosi di riprendere il controllo di un futuro che non poteva più esser lasciato né a se stesso né al libero gioco degli individui. Riprendere il controllo ha significato appunto costruire dei soggetti collettivi ideologicamente omogenei, organizzati come eserciti, che realizzassero con la massima disciplina la volontà dei rispettivi leader. E ha significato ricorrere con abbondanza alla violenza, strumento necessario a liberare la società da elementi eterogenei o non allineati, eliminare i progetti concorrenti, sgombrare il cammino da qualsivoglia ostacolo.
I grandiosi e terribili progetti collettivi di trasformazione del mondo non sono sopravvissuti al Novecento: i fascismi al secondo conflitto mondiale, i comunismi alla Guerra Fredda. Dagli anni Settanta siamo entrati in una nuova stagione storica orfana di disegni politici ambiziosi. E non è un caso allora che proprio quel decennio abbia rappresentato l'ultima propaggine della violenza politica novecentesca. Marcel Gauchet ha ben sintetizzato i termini di questo radicale cambio d'epoca: «Non c'è alcuna rinascita totalitaria all'ordine del giorno né in vista», ha scritto nel 2017, perché «mancano gli ingredienti che le sarebbero indispensabili. Non ci sono più né masse che possano agire, né ideologie che possano mobilitarle, né partiti che possano inquadrarle».
La violenza politica non è scomparsa del tutto, però. È sopravvissuta assumendo soprattutto una veste etica: non più strumento di un progetto politico, è diventata un modo per esprimere odio nei confronti di qualcuno che si considera moralmente ripugnante. Non persegue più alcuno scopo pratico ma ha l'obiettivo psicologico di consentire a chi ne fa uso di sfogare tutto il proprio sdegno e di nutrire al contempo il proprio senso di superiorità.
La metamorfosi della violenza da politica in etico-politica è nata senz'altro a sinistra. Non perché la violenza nasca a sinistra né perché la sinistra ne sia responsabile in ultima istanza, ma perché i processi di trasformazione scaturiscono quasi sempre sul versante progressista, là dove prospera lo spirito rivoluzionario della modernità. È a sinistra che negli anni Settanta, di fronte alla crisi sempre più evidente del comunismo e della socialdemocrazia, ci si è convinti che la via maestra al cambiamento non potesse più esser politica ma dovesse essere morale. Che per costruire un mondo migliore fosse necessario in primo luogo rieducare gli individui, uno per uno, a leggere diversamente la realtà e comportarsi in maniera differente.
La destra ha giocato di rimessa. Un po' ha cercato di proporre una propria moralità alternativa basata sulla tradizione o sul mercato. Più spesso si è ribellata contro la crescente e sempre più arrogante pressione pedagogica dei progressisti ricorrendo a una deliberata brutalità verbale e in alcuni casi abbandonandosi pure alla violenza fisica. Di certo, a sinistra questa resistenza è stata considerata un segno inequivocabile d'inferiorità morale: lo stigma del celebre girone degli spregevoli di Hillary Clinton, il «basket of deplorables».
Dicevo prima che la violenza etico-politica è al contempo più e meno pericolosa di quella schiettamente politica. Lo è di meno perché, non sostenuta da ambiziosi progetti collettivi che accendano la fantasia delle masse, rimane quasi sempre un fenomeno di piccoli gruppi se non singoli individui. È uno sfogo emotivo, non una strategia; esprime un moto di frustrazione nel presente, non è al servizio di un grandioso disegno per il futuro. Ma è pure più pericolosa perché l'inimicizia etica è profonda e irrimediabile, arma l'uno contro l'altro due generi umani che rifiutano di riconoscersi a vicenda. Se si diffondesse, nelle società rabbiose in cui viviamo, sarebbero guai seri.