Come quasi tutti nel mio ambiente, ho trascorso l'ultima settimana in uno stato di stordimento. La notizia dell'assassinio dell'attivista conservatore Charlie Kirk ha gettato nello shock e nella tristezza chiunque lo avesse conosciuto. Lo avevo incontrato in vari studi tv, ero stato ospite del suo programma radiofonico e avevo collaborato con lui per trovare persone capaci da inserire al Dipartimento dell'Istruzione. Mi ha sempre colpito la sua genuinità, l'idealismo, la dedizione alla causa. Ancora oggi resto stupito da quanto abbia costruito in così poco tempo: un'organizzazione imponente, una carriera da star mediatica, un ruolo da consigliere del presidente degli Stati Uniti e una splendida famiglia. Tutto entro i 31 anni.
Nella giostra quotidiana della politica è facile farsi travolgere da titoli e polemiche effimere. La morte di Kirk, invece, segna un momento di svolta che impone riflessione. La sua vita e tragicamente la sua fine raccontano alcune verità profonde sull'uomo e sull'America. Anzitutto, Kirk ha fatto tutto nel modo giusto. Era un conservatore disposto a entrare nei territori più controversi, ma sempre guidato dall'idea che il dibattito sia il grande chiarificatore e che, in democrazia, la persuasione sia il vero motore del cambiamento. Discuteva con gli avversari e credeva nella forza delle urne.
La sua morte e la reazione della sinistra radicale hanno confermato ciò che aveva sostenuto per quasi dieci anni: che l'ideologia transgender avrebbe portato a conseguenze disastrose. Dai primi rapporti sembra che il presunto assassino, Tyler Robinson, sia stato radicalizzato on line tra militanza antifascista e attivismo trans. In entrambe le derive più estreme domina un nichilismo che sfocia nella violenza: l'esatto contrario dell'approccio di Kirk. Non è un dettaglio: quando è stato ucciso, Kirk stava rispondendo a una domanda proprio sul legame tra ideologia trans e sparatorie di massa, un fenomeno in preoccupante crescita. Lui cercava il confronto, il suo assassino ha scelto la pallottola per chiuderlo.
Il dopo è stato altrettanto inquietante. Migliaia di americani studenti, professori, perfino membri delle forze armate hanno applaudito all'omicidio. Alcuni hanno invocato altra violenza contro i conservatori. Persino figure delle cosiddette "professioni di aiuto", come insegnanti e medici, hanno ceduto alla retorica della vendetta.
Come devono rispondere i conservatori? Seguendo la linea che lo stesso Kirk incarnava: il dibattito è sano, la violenza è inaccettabile. È giusto, dunque, che alcune istituzioni abbiano licenziato chi ha esultato per l'assassinio. Non si tratta di cancel culture di destra. Durante gli anni del wokismo la sinistra organizzava linciaggi sociali contro adolescenti colpevoli di aver cantato versi rap o contro un operaio latino accusato di aver "schioccato le nocche nel modo sbagliato": esempi di censura estrema e ingiustificata. Ben diverso è il caso di un insegnante che inneggia a un omicidio politico: qui il licenziamento è conseguenza naturale. Ogni società ha bisogno di confini. Se non c'è sanzione sociale per chi celebra la violenza, l'America diventerà un luogo più pericoloso.
Quanto alla questione trans, nuove informazioni emergeranno sul killer di Kirk. Ma le prove già bastano a considerare i radicali transgender come una minaccia per l'ordine civile degli Stati Uniti, alla stregua di suprematisti bianchi, neonazisti, militanti antifà e altri gruppi d'odio. Alcuni esponenti dell'amministrazione Trump, come Stephen Miller e il vicepresidente J. D. Vance, hanno già dichiarato di voler agire per applicare la legge contro i movimenti violenti.
Charlie Kirk ha sacrificato la vita per la verità. Onorarne l'eredità significa restare saldi nei principi, continuare a credere nel confronto politico e, quando serve, far rispettare la legge contro chi trasforma la militanza in violenza.