Quei tornanti nel cielo tra storia, mito e fatica. Il Passo tra le Alpi icona delle grandi sfide

Scritto il 26/07/2025
da Antonio Ruzzo

Strada realizzata nel 1825 dall’ingegner Donegani su incarico di Francesco I d’Asburgo. Progetto visionario reso immortale (anche) dal ciclismo

Le strade uniscono popoli e territori. Il Passo dello Stelvio di più. Sono due secoli tondi tondi che lo Stelvio mette insieme mondi diversi non solo la Lombardia, il Trentino e la Svizzera; non sono la Valtellina, la Val Venosta e la Val Mustair. Va oltre i confini. Sfiora il cielo lo accarezza, trascende curve, asfalto e tornanti per raccontare un storia infinita fatta di sogni, di duro lavoro, di imprese, di mani e badili, di volti, di campioni, di imprese, di grandi vittorie, grandi sconfitte, di sport, di politica, di immagini che il tempo ha lasciato in eredità e che raccontano due secoli di vita scritta e riscritta su un passo che comunque sia va conquistato tornante dopo tornante.

Lo Stelvio è per chiunque una sfida. A cominciare da Carlo Donegani, l’ingegnere bresciano, incaricato da Francesco I d’Asburgo di costruirlo quando, dopo il Congresso di Vienna nel 1815, si costituì il Regno Lombardo-Veneto, parte integrante dell’Impero austriaco, e nacque l’idea di una via che collegasse Milano con Vienna attraversando le Alpi Retiche senza passare dalla Svizzera. Il progetto era già accennato in una bozza di epoca napoleonica ma Donegani ci mise del suo. I lavori di costruzione iniziarono il 26 giugno 1820, partendo dal centro di Bormio e proseguendo verso i Bagni Vecchi. Una salita che sembrava non dover mai finire ma che il progetto volle mantenere sempre intorno al 10 per cento di pendenza, mai troppo di più ma neppure troppo di meno. E quello è forse uno dei segreti che hanno fatto diventare lo Stelvio un’icona, la possibilità di salire, di scendere, di scalare con il giusto tributo di fatica. Trentaquattro tornanti dal versante Valtellinese che, in epoche più recenti diventarono poi 40, e 48 da quello altoatesino. Fu un lavoro «ciclopico» considerando mezzi e tecnologie del tempo. Un lavoro che vide impegnati oltre 2.500 operai di giorno e in pratica anche di notte visto che per sei anni, giorno più giorno meno, vissero lì, su quella montagna e su quelle strade accampati in tende e costruzioni di lavoro. Costruirono tutto ciò che chiese loro l’ingegner Donegani, tutto ciò che serviva e molto di quanto è rimasto. Curve, tornanti, muri di sostegno, gallerie, paravalanghe, infrastrutture di sicurezza, baracche per il ristoro dei viaggiatori, rifugi, una caserma, un oratorio e cinque case cantoniere dove potevano vivere e sopravvivere in inverno gli addetti alla manutenzione della strada che avevano l’arduo compito di liberarla con e pale dalla neve.
Il 6 luglio 1825, con solenne cerimonia, l’imperatore austriaco Francesco I d’Asburgo inaugurò la strada più alta d’Europa conferendo all’ingegner Donegani il titolo onorifico di Conte, per l’ardire e la potenza del suo visionario progetto.
La fine dei conflitti e la storia consegnarono all’Italia entrambi i versanti dello Stelvio al tempo via di comunicazione per cavalli e carrozze e che in epoca moderna, alla fine del gli Anni Trenta, diventò la strada Statale numero 38. Tale è rimasta. Tale è stata conservata con qualche piccolo aggiustamento, con l’allargamento al doppio senso di marcia, con l’asfalto e con la sua storia che di giorno i giorno ha consolidato i legami con le genti, con il territorio con i mezzi che passano, che transitano lasciandosi alle spalle ogni volta pezzetti di storia. Soprattutto le bici. Soprattutto il ciclismo che su questi tornanti non ha solo scritto storie e la storia, ma ha messo radici, ha consolidato la sua origine. Lo Stelvio sta al Grande ciclismo come Wimbledon al tennis, come Wembley al calcio e forse di più. Faticoso e silenzioso perché le chiacchiere dopo primi chilometri stanno a zero. Una arrampicata mistica per chi va a pedali perché è solo il respiro a rompere la sacralità di una salita che è una spremuta di ciclismo e di storia. Quasi sempre «Cima Coppi», la più alta in un giro d’Italia.
Sempre uno spettacolo.
Su questi tornanti sono saliti tutti. «Pirati», «Pistoleri», «Sceriffi», «Yankee», «Cowboy», «Tassi» «Ragazzini col ciuffo». Pedalate di gloria che racchiudono il mito di un sport che da Fausto a Gino a Felice è un’epopea da portare sui banchi delle scuole per raccontare il Paese che siamo stati e che, con un po’ di nostalgia, vorremmo tornare ad essere. Come il ciclismo, sport popolare, lo Stelvio mette insieme tutti i mondi possibili, magari lontanissimi che però tra tornanti, pedivelle e pignoni girano intorno allo stesso pianeta. Su questo passo si ritrova il senso dell’alta montagna con i suoi riti lenti, con i suoi silenzi che sono valori e tradizioni che fanno a pugni con lo smanettare festivo dei centauri. Lo Stelvio dei sogni è «silente», potente e assoluto omaggio e tempio dell’immaginario ciclante. C’era una volta lo Stelvio e ci sarà per sempre.
Sono duecento anni che c’è.
Un romanzo infinito che emoziona, anche quando si rileggono pagine già lette.
Nel 1953 Fausto Coppi vinse il suo quinto Giro d’Italia battendo lo svizzero Hugo Koblet che aveva la maglia Rosa in tasca. Era la prima volta che si saliva fin lassù: «Lo Stelvio è una cosa mai vista. È un mostro...», confessò. Ma non ebbe paura, se lo fece amico e scrisse la storia.